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C’è un fantasma che si aggira nell’Italia del declino, il Mezzogiorno. È forse questo il fenomeno che maggiormente caratterizza, rispetto al resto d’Europa, la crisi del Paese. E, come spesso capita con quel che fa paura, se ne parla poco. Meglio, se ne parla talvolta con gli slogan di un meridionalismo statalista al quale nessuno crede più. Oppure, alternativamente, con rivendicazioni autonomistiche di provenienza settentrionale non meno logorate dal tempo. Senza il fardello del Sud, si sente dire, il Nord sarebbe ai livelli della Germania. È come se l’Italia avesse, al proprio interno, qualcosa di simile a ciò che, per l’Unione europea, è la Grecia.

In una fase di crisi economica epocale, del resto, il problema delle periferie a bassa produttività tende a cambiare radicalmente. I territori meno avanzati non hanno più modo di agganciarsi, sia pure indirettamente e parzialmente, alla crescita dei territori più avanzati, mentre lo Stato non ha più le risorse necessarie per massicci trasferimenti di tipo compensativo e solidale. Con due conseguenze. Private dell’usuale prospettiva assistenzialistica, le periferie sono costrette a fare di necessità virtù, sebbene la virtù appaia socialmente e culturalmente dolorosa. Ma, soprattutto, esse diventano e sono avvertite come un impedimento alla ripresa dell’intero Paese.

È un simile tornante che spiega perché la questione meridionale sia diventata questione settentrionale. In una ricerca del 2010 recentemente ripubblicata, Luca Ricolfi ha quantificato in diverse decine di miliardi i trasferimenti che vanno annualmente dalle regioni settentrionali al Sud, ovvero a territori che mediamente si caratterizzano per bassa produttività, ipertrofia del settore pubblico, inefficienza amministrativa, economia sommersa, evasione fiscale ecc. [1]. In quest’ottica, il Mezzogiorno appare problematico non soltanto per le popolazioni che lo abitano, ma ancor più perché, drenando cospicue risorse dalle aree più dinamiche del Paese, finisce per compromettere la crescita dell’economia italiana nel suo complesso.

Un Sud che si era sempre rappresentato come l’anello debole e dimenticato dei processi di sviluppo del Centro Nord e che lungamente aveva recriminato per l’inadeguatezza, se non l’avarizia, mostrata nei suoi confronti dai governi nazionali e dalle stesse popolazioni settentrionali, è ormai messo alla sbarra in modo esplicito, costretto a rispondere all’accusa di essere la palla al piede del Paese. Per oltre un secolo si era vittimizzato, oggi viene colpevolizzato.

La questione meridionale si sta tagliando i ponti alle spalle e molte delle sue retoriche appaiono sempre meno fondate

Naturalmente, il rischio è di saltare a piè pari da un estremo all’altro. Tuttavia è vero che, per certi versi, la «questione meridionale» si sta tagliando i ponti alle spalle e che molte delle sue tradizionali retoriche politiche e culturali appaiono sempre meno fondate. Non è credibile continuare a parlare del Sud come di una specifica emergenza sociale, sebbene gran parte del suo ceto politico sia tuttora assai indulgente verso questa chiave di lettura, naturalmente per motivi di consenso. Dalla metà del Novecento, sia pure con un prodotto per abitante che resta distanziato da quello settentrionale, «il problema del Mezzogiorno non è più un problema di miseria materiale», ha scritto un economista non sospettabile di simpatie nordiste come Augusto Graziani [2]. E questo modifica – o sarebbe auspicabile che modificasse – anche la percezione (interna ed esterna) del territorio.

Né difendibili appaiono le politiche pubbliche che governi nazionali, Parlamenti ed enti regionali vi hanno sperimentato dal secondo dopoguerra fino a tempi assai vicini. Di recente, uno scienziato sociale di esplicita ispirazione meridionalista come Carlo Trigilia ha passato in rassegna gli interventi degli ultimi sessant’anni, sottolineandone i frutti parziali, non di rado mediocri, comunque non risolutivi. E anzi, nelle loro forme assistenziali di fine Novecento, addirittura controproducenti. Un «keynesismo perverso» che dovrebbe indurre a ripensare la stessa teorica del Mezzogiorno, più che riproporre eternamente quelle politiche, quasi che, quando si parla di Sud, l’esperienza non abbia alcun peso.

Lo stesso Trigilia sembra mettere una pietra tombale su un’altra speranza emersa vent’anni fa, con la diffusione di programmi di tipo federalista e l’emergere dei «nuovi sindaci» a elezione diretta. Le cose non sono andate bene. Il ceto politico locale ha deluso. Il decentramento non ha accresciuto l’efficienza delle macchine regionali e comunali. E Trigilia, che pure aveva espresso giudizi ottimistici su quella stagione, avverte oggi che il federalismo «non può significare un ritiro di responsabilità del centro» e anzi chiede esplicitamente «maggiori controlli dal centro». Come dire che si torna alla casella di partenza [3].

Tra i fallimenti del passato e la pressione della crisi odierna, insomma, sembra questo il momento per ripensare senza veli – sudisti o nordisti che siano – alla «questione meridionale». Cosa tutt’altro che facile, però. Il grumo ideologico ossificatosi nel corso del tempo attorno alla «questione» ha determinato tensioni culturali, aspettative sociali e, a monte, un senso comune che appare arduo non dico modificare, ma soltanto mettere in discussione. Sono pochi i temi del discorso pubblico che, con altrettanta forza, sono riusciti a sopravvivere ai concreti processi di trasformazione del Sud e del Paese. E non c’è dubbio che buona parte di questa pervasività discorsiva venga da un approccio storicistico – storicismo sommario, intendiamoci – il quale riversa meccanicamente e strumentalmente sul passato le criticità del presente. Ancora oggi, la storia spesso serve a giustificare facili vittimismi, recriminazioni malriposte, fraintendimenti o quella coazione a ripetere gli errori alla quale accennavo prima. E da qui, perciò, da una rivisitazione del ruolo del Sud nei centocinquant’anni di vita del Paese, può essere utile partire.

Ripensare senza veli alla questione meridionale

Impropriamente facendosi scudo della storia, il senso comune del Mezzogiorno non di rado sembra equivocare sulla stessa collocazione di questo territorio. Dove si trova il Sud? Qual è il suo contesto? Rispetto a quali parti del mondo va misurato? Sono problemi meno paradossali di quanto potrebbero sembrare perché da qui partono rappresentazioni e autorappresentazioni che appaiono viziate da un eccesso di indulgenza o da un eccesso di severità.

Quella sorta di separazione politico-antropologica decretata dall’Europa ai danni del Sud

Si tratta di una vecchia storia, che mescola politica e geopolitica, cultura e sociologia. «L’Europe finit à Naples», aveva detto nel 1806 Augustin Creuzé de Lesser [4]. «Napoli non fa parte dell’Europa», ripeterà alcuni decenni più tardi William Nassau Senior. Perfino Ferdinando II, alle proteste di un diplomatico straniero che definiva «africani» i comportamenti della polizia borbonica, aveva risposto icasticamente: «Ma l’Africa comincia qui!». Come in un gioco di specchi, il Mezzogiorno sembra spesso ricacciato fuori dall’Occidente e sembra esso stesso collocarsi in un simile indistinto territorio. Nell’Ottocento preunitario, da Metternich al «Times», le diplomazie e le opinioni pubbliche europee non avevano perso occasione per stigmatizzare i vizi estremi dello Stato borbonico e, per sineddoche, l’antropologia selvatica degli abitanti del Regno. E se a Ferdinando II e Francesco II, gli ultimi sovrani della dinastia napoletana, erano toccati i terribili nomignoli di Re Bomba e di Caligola, i meridionali si erano guadagnati l’epiteto di ottentotti, tartari, beduini, ottomani. E non soltanto da parte degli stranieri, tipicamente influenzati – ha scritto Rosario Romeo – da pregiudizi di stampo «liberale, protestante e anche nordico-razzista» [5]. Per Carlo Nievo, quella meridionale era «una razza di briganti». Per Aurelio Saffi, «un lascito della barbarie alla civiltà del secolo XIX». Nel corso del fatale 1860, gli stessi napoletani sembravano dare per scontata questa sorta di separazione politico-antropologica decretata dall’Europa ai propri danni. Un’attitudine che mescolava vittimismo e fatalismo. E che evoca umori e opinioni tuttora diffusi.

In anni recenti, utilizzando le categorie di Edward Said, alcuni studiosi hanno ritenuto che quelle rappresentazioni fossero viziate da un pregiudizio «orientalista», ovvero dal senso di lontananza ed estraneità tipicamente sotteso alle immagini stereotipate che la cultura coloniale esprime sui popoli colonizzati. Una chiave di lettura che confermerebbe la natura subalterna del rapporto originario tra il Sud, l’Italia e l’Europa. Ma lo stigma che sembra perseguitare il Mezzogiorno può essere interpretato in un senso del tutto opposto. È pensabile che il Sud venga giudicato con grande severità, dall’opinione pubblica occidentale del XIX secolo, perché se ne avverte la vicinanza e non la lontananza da Londra o Parigi. Se taluni suoi caratteri politici, culturali e sociologici fanno scandalo e vengono definiti come «africani», è perché quei territori sono in Europa e non in Africa. A disgustare le élite vittoriane, per dirne una, è il fatto che i tribunali napoletani, che all’indomani del 1848 mettono ai ceppi il fior fiore dell’intellighenzia locale, si trovino nella patria di Filangieri. Ovvero nel cuore della cultura e della storia d’Europa. I meridionali non sono «orientali», ma occidentali. È questo il loro contesto passato e presente.

Il che significa che non esiste una corrucciata e recriminatoria storia a parte del Mezzogiorno, essendo quella del Mezzogiorno storia europea e, con l’unificazione, storia italiana. Ma significa anche un’altra cosa, che il senso comune e gli stessi storici tendono a sottovalutare: se giudizi e pregiudizi sul Sud non nascono tanto da deformazioni etnocentriche, quanto piuttosto da una preoccupata comparazione interna all’Occidente, se ne deve concludere che quell’insistenza sui caratteri «orientali» del territorio sottolinea fenomeni reali. Con i quali sarebbe dunque ragionevole fare i conti. I meridionali sono europei, sembra dire il tradizionale stigma, ma assomigliano pericolosamente agli ottomani.

Il Mezzogiorno storia europea e storia italiana

Il Sud, in altre parole, è ben radicato nel Vecchio Continente, ma entra nella vicenda nazionale come un vistoso fenomeno di difformità. Questo sembra suggerire la storia patria, smentendo quanti tendono a enfatizzare una sorta di sua irriducibilità alla cultura occidentale oppure favoleggiano di un Mezzogiorno preunitario assai simile al resto della penisola e poi vittima della piemontesizzazione. La sua diversità non nasce a seguito dell’inserimento nella compagine unitaria, come ripete parte della cultura meridionalistica e della storiografia accademica (per non dire della pubblicistica filoborbonica). Esiste ben prima.

Lo Stato borbonico fu una tigre di carta, il che spiega anche la sfiducia nei confronti degli istituti pubblici

Il Mezzogiorno che a metà del XIX secolo si incontra con il Risorgimento è segnato anzitutto dalla debolezza di uno Stato che non riesce a imporsi sul proprio territorio, sulle comunità contadine, sui signori della terra. La questione feudale viene da molto lontano, ma infiltra e lacera la storia meridionale fino a tempi insolitamente recenti. Tradizionalmente, i feudatari si erano appropriati di una parte dei redditi delle comunità e delle funzioni pubbliche locali, costituendo un potere politico e sociale in grado di fare ombra allo Stato e di ostacolare l’emergere di un ceto di proprietari privati. La storia delle campagne meridionali è costellata dalle controversie giudiziarie tra baroni e contadini sui confini dei demani, l’uso dei pascoli, la raccolta della legna ecc. Significativamente, attorno alle élite terriere si era andata consolidando nel tempo – perpetuandosi ben oltre il periodo feudale – un’idea ampiamente condivisa e corrosiva «di violenza, di usurpazione, di illegalità», come ha scritto Paolo Pezzino [6].

A fronte di questo fiume carsico di conflittualità, le istituzioni centrali sono deboli e i loro tentativi di affermare lo Stato e la legge – contro i poteri locali e gli abusi – non decollano. Né basterà per modificare le cose in modo decisivo il «decennio francese» (1806-1815), quando i napoleonidi introducono diritti individuali, leggi universali, reti amministrative, e aboliscono la feudalità. Dieci anni sono pochi per costruire un nuovo Stato e superare le croniche asimmetrie politiche e sociali che infiammano le campagne, e del resto la fine della feudalità non ha risolto il problema della terra. La distribuzione dei demani è lenta e inefficace, perché i contadini sono troppo poveri per gestire i loro appezzamenti (quando li ricevono davvero), sicché, alla fine, sarà la borghesia benestante – i galantuomini – ad appropriarsi delle terre dei baroni, ereditandone poteri e comportamenti, monopolizzando le amministrazioni municipali, adottando le pratiche più impopolari della vecchia feudalità.

Lo Stato borbonico di metà Ottocento rimane una tigre di carta. Il che spiega un altro carattere di lungo periodo della società meridionale: la sfiducia nei confronti degli istituti pubblici. Le popolazioni locali continuano a vivere secondo le proprie consuetudini, antepongono le tradizioni del posto alla legge, fanno resistenza a dazi e gabelle, utilizzano pratiche di giustizia private e informali. Nei decenni preunitari, le periferie meridionali restano irriducibili ai codici dello Stato. L’antica rivendicazione delle terre usurpate ne ha lacerato il tessuto sociale e civile. La questione demaniale, dirà nel 1901 Giustino Fortunato, rappresenta «un immenso strascico di risentimento e di odio», «lievito che fermenta», «fuoco che cova l’incendio». E nel fuoco bruciano, a egual titolo, la legittimità delle classi dirigenti locali e la credibilità dello Stato centrale.

Né stupisce che il Mezzogiorno preunitario sia pervaso da un fenomeno che, per dimensioni e caratteristiche, appare atipico rispetto al resto della penisola e all’Europa occidentale: la violenza privata e politica. È spesso violento lo scontro settecentesco fra comunità e baroni. È terribilmente cruento il 1799. Saranno violenti i decenni della Restaurazione, quando i contadini, esclusi dai nuovi consigli comunali elettivi, combatteranno i galantuomini con l’occupazione delle terre, i furti di bestiame, l’incendio di granai e foreste. Per non dire della piaga del brigantaggio, che ancora a metà Ottocento sconvolge intere province. Alle bande dei briganti, scrive Angelantonio Spagnoletti, si aggregano «migliaia di individui, padri e figli, che nell’assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio [trovano] la fonte primaria del proprio sostentamento» [7]. Un sintomo di patologie sociali e politiche. I fuorilegge possono contare sull’omertà di contadini e pastori e sulla connivenza di giudici e amministratori locali. Non di rado, gli stessi notabili usano i banditi per conquistare un municipio, vincere la competizione con le famiglie rivali, imporre la recinzione dei demani. In Sicilia, le élite di estrazione feudale esprimono la propria estraneità allo Stato dotandosi di piccoli eserciti privati, le cosiddette «squadre», contadini armati alla meno peggio, che appaiono tuttavia in grado di sostituire la forza privata alla forza della legge.

Posta all’incrocio fra gli inestinguibili conflitti del tessuto sociale e gli spazi lasciati vuoti dalle istituzioni centrali, la violenza rappresenta un forte segnale della diversità del Mezzogiorno. Nelle regioni centro-settentrionali, le tensioni comunitarie provocate dall’occupazione abusiva dei demani o dall’aggravio delle esazioni fiscali hanno assunto, durante i primi decenni del XIX secolo, tutt’altre forme: legalitarie, giudiziarie, raramente di attacco a cose e persone. In Piemonte, in Lombardia, in Toscana, la nobiltà terriera ha saputo reagire efficacemente alla rivoluzione legislativa portata dai francesi, accrescendo la produttività delle terre e facendosi carico – rispetto alle popolazioni – di una sorta di responsabilità sociale della proprietà. Il che legittima il suo ruolo preminente nella gestione dei municipi e, a monte, i suoi titoli di proprietà.

Perché soffermarsi su queste vicende? Perché spiegano molte cose del Paese che nasce nel 1861 e del ruolo cruciale che vi svolge la sua parte meridionale, al di là dei fraintendimenti, degli alibi, delle reticenze che ancora oggi l’opinione pubblica coltiva in proposito.

Il mito (duro a morire) della guerra di conquista del Sud, non dichiarata e proditoria

È fin troppo evidente come questo territorio profondamente difforme renda il processo unitario – il Risorgimento – complicato, lacerato, conflittuale. Lo dice la nuda cronologia. Nel 1860, nella Sicilia dei Mille e delle «bande» contadine, si combatte una guerra aspra, informale, anarchica, costellata di violenze politiche e vendette private. In quelle stesse settimane, dietro le quinte, democratici e liberali arrivano sull’orlo dello scontro diretto e Cavour le prova tutte per disarcionare l’Eroe dei Due Mondi. Due anni dopo, sull’Aspromonte, Garibaldi verrà preso a fucilate dai bersaglieri. Nel frattempo, fra 1861 e 1865, esplode la più sanguinosa guerra civile italiana, il cosiddetto «grande brigantaggio», che lascia sul terreno molte migliaia di vittime.

Ma qui comincia, piaccia o meno, la storia d’Italia e non sarebbe male se l’autocoscienza meridionale fosse consapevole della parte avuta dal Sud in un simile cammino tortuoso e doloroso, a metà tra insorgenza popolare e rivoluzione passiva, tra illusioni fragili e inevitabili delusioni. Un percorso che, nell’accavallarsi di violenze di massa e repressione statale, metterà subito a dura prova il nuovo governo liberale del Paese. Sbarcando nel Sud, il Risorgimento diventa un’altra cosa. Qui l’Italia si trova ad affrontare una variabile in buona parte imprevista e difficile da governare.

Ma c’è di più. Contrariamente all’idea di un Mezzogiorno conquistato – classico topos di ogni futuro rivendicazionismo – tutto sembra accadere all’interno del Sud e per opera di forze politiche e sociali del Sud. Il regno di Francesco II non crolla a causa delle spallate di Francia e Inghilterra, le quali, alla prova dei fatti, non esistono. Né per l’iniziativa dei piemontesi, che vanamente cercano di provocare la sollevazione liberale di Napoli. E neppure la fine dei Borbone può essere accreditata tout court a Garibaldi, sia pure dandogli tutta la gloria che gli spetta.

Piuttosto, il Regno meridionale si disfa, nel giro di settimane, dapprima per la cruenta rivolta antinapoletana della Sicilia, senza la quale difficilmente alcune centinaia di volontari avrebbero potuto prevalere su ventimila borbonici, e poi per le gravi incertezze dell’élite borbonica, culminate il 25 giugno del 1860, con la scelta di Francesco II di concedere Costituzione, diritti politici, libertà di stampa e amnistia. Una svolta radicale e tardiva, che provocherà la delegittimazione del regime e il subitaneo sfaldamento della macchina dello Stato, aprendo ai garibaldini le porte delle province continentali del Regno. Un suicidio politico, in altri termini.

Tutto questo ha poco a che fare con il mito (duro a morire) di una guerra di conquista non dichiarata e proditoria. Il Sud non è vittima di alcuna macchinazione settentrionale o internazionale. Piuttosto, è destinato a complicare pesantemente il processo di formazione del nuovo Stato, imponendo al Risorgimento liberale le sue tensioni sociali, la sua violenza diffusa, la sua inefficienza amministrativa e militare, la sua ingenuità politica. Il che ha enormi conseguenze sul futuro del Paese, anzitutto suggerendo ai governanti un assetto accentrato delle istituzioni, il quale si rivelerà più o meno definitivo.

Una funzione strategica per la stabilità politica del Paese

Qui, però, comincia un’altra storia, essa pure poco coerente con la vulgata della colonizzazione piemontese o con l’opposta lamentazione sui problemi addossati dal Sud allo Stato nazionale. Uno schema binario – vittima o palla al piede – evidentemente improbabile. La drammatica irruzione, nell’Italia del 1860, di quel territorio «africano» non impedirà al Paese di fare la sua strada, né al Sud di esserne parte indispensabile. E si tratta di un cammino molto proficuo.

Sebbene nasca tra le doglie di un Risorgimento meridionale quanto mai complesso, infatti, il nuovo Stato mostra grandi capacità politiche e geopolitiche. La sua armatura civile e militare viene costruita dai governi liberali in modo deciso e rapido, applicando al territorio italiano le istituzioni sarde e così sfidando le prevedibili reazioni alla piemontesizzazione. I conflitti armati che sconvolgono il Sud sono stroncati con mano inflessibile. Con analoga fermezza, quel ceto politico appronta una vasta legislazione economica (moneta, debito pubblico, fisco), colpisce la proprietà ecclesiastica (1866-67) e risana il bilancio (1875). Ma sono rilevanti anche le performance successive all’età della Destra, dalle prime riforme sociali fino all’intensa stagione crispina, con la riscrittura delle norme su comuni e province, il codice penale, la laicizzazione delle opere pie ecc. Né meno incisiva sarà la politica giolittiana, che saprà farsi interprete in modo flessibile del decollo strutturale di primo Novecento, o anche, nel secondo dopoguerra, la gestione governativa della ricostruzione e del «miracolo economico». Visto in una prospettiva lunga, l’Italia è un Paese di successo. Economicamente povero e politicamente marginale nel 1861, entrerà a fine Novecento nel «club dei grandi».

È spesso al Sud che il ceto politico nazionale trova una preziosa base di consenso elettorale

Il punto è che quel successo ha profonde radici nella parte meridionale della penisola. E non soltanto per il ruolo del Sud in termini di contribuzione fiscale, flussi migratori, mercato di consumo, risorse intellettuali ecc. Il Mezzogiorno ha un’altra funzione strategica, nella storia del Paese: ne garantisce la stabilità politica. Per decenni, le sue élite parlamentari e locali forniranno le indispensabili radici sociali ed elettorali a un ceto di governo inizialmente molto limitato nei numeri e spesso debolmente legittimato. Il Sud si presenta cioè come un prezioso serbatoio di consensi. È per definizione governativo. E dunque, volta a volta, sarà il nocciolo duro delle maggioranze depretisiane, il pezzo forte della stabilità crispina e poi giolittiana, il volto notabilare del Ventennio, il ventre democristiano della Repubblica. Ministeriale, nazionale e moderato (malgrado le residue jaqueries che talvolta lo infiammano), costituisce il contrappeso politico ai molti «venti del Nord» che mettono in tensione il Paese, dal socialismo massimalista al fascismo rivoluzionario, dalla sinistra filosovietica al secessionismo leghista.

È spesso nel Sud della penisola che il ceto politico nazionale cerca e trova, con metodi più o meno commendevoli, una preziosa base di consenso elettorale, dando in cambio al Mezzogiorno, attraverso la rete dei deputati e degli amministratori locali, risorse materiali di vario genere, opere pubbliche, uffici, posti di lavoro, leggi speciali. Un’accorta governance delle periferie, da parte dello Stato centrale e dei suoi governi, che costituisce il cruciale fattore di stabilità di un Paese, per altri versi, socialmente fragile e politicamente divisivo.

Ma se, visto nell’ottica della crescita secolare del Paese, un simile modello di scambio tra centro e periferie sembra conseguire ottimi risultati, nel Mezzogiorno esso presenta alcune evidenti criticità.

In primo luogo, quelle risorse pubbliche finiscono per garantire una sopravvivenza artificiosa ai ceti dirigenti locali, i quali li procacciano e li gestiscono. E, trattandosi di élite spesso socialmente conservatrici, localistiche, refrattarie alle sfide dell’innovazione, eredi della controversa tradizione del galantuomismo meridionale, quella sopravvivenza politica significa in pratica la sopravvivenza del malgoverno. Certo è che, diversamente da quanto accade nelle aree centro-settentrionali, i municipi del Sud hanno una storia di manipolazione clientelare del consenso, inefficienza amministrativa, appropriazione privatistica dei beni pubblici, la quale sembra quasi inossidabile al trascorrere del tempo. Ne stigmatizzeranno i vizi gli osservatori di età borbonica, le grandi inchieste otto-novecentesche, gli scritti dei meridionalisti, le scienze sociali novecentesche, gli storici.

In secondo luogo, il trasferimento di risorse pubbliche dal centro alle periferie determina una grave distorsione del mercato economico locale, favorendo l’allocazione di quelle risorse in base a criteri politico-clientelari, più che per strategie di pubblica utilità e nella prospettiva di uno sviluppo territoriale.

Ma non meno grave, in terzo luogo, è la distorsione dello stesso mercato politico. Élite comunali e parlamentari vengono infatti selezionate dall’elettorato meridionale non per le loro doti amministrative e politiche e per l’efficienza della gestione locale, quanto piuttosto per la capacità di ottenere da governi e Parlamenti la maggior quantità possibile di risorse destinate ai propri collegi e ai propri municipi.

Sono nodi storici di prima grandezza. Suggeriscono un bilancio non di maniera della lunga esperienza unitaria del Sud. Se, con l’inserimento nello Stato nazionale, il Mezzogiorno ottiene risorse impagabili, come le libertà civili, la pratica della rappresentanza o l’accesso a un mercato di taglia europea, è sul piano della cristallizzazione artificiosa di un sistema di poteri locali e di un circuito perverso tra elettori ed eletti che la storia italiana getta ombre lunghe sulla storia meridionale. È lo scambio politico e materiale tra centro e periferia che blocca artificiosamente il Sud, i suoi connotati economici e sociali e perfino, in un certo senso, la sua democrazia. Il che non significa che quelle élite e quelle popolazioni possano considerarsi soggetti passivi di una strategia «nordista». Dopo tutto, il sistema viene alimentato in modo sistematico nel Sud e dal Sud.

Al tempo stesso, non andrebbe dimenticato che esiste una asimmetria di fondo negli equilibri politici dell’Italia unita: detta in modo schematico, i governanti vengono eletti con i voti meridionali, ma esprimono interessi settentrionali. Se è vero cioè che, in cambio del consenso, élite e territori meno avanzati trovano nei trasferimenti ministeriali una garanzia di sopravvivenza, è vero soprattutto che sono le élite e i territori più dinamici a tenere la barra del comando. Durante la stagione del take-off, per esempio, le élite sociali del Nord riescono a incidere fortemente sulle scelte strategiche dei governi, grazie alla loro capacità di organizzarsi in reti di interessi e gruppi di pressione. Dalla tariffa doganale del 1887 ai ricchi appalti ferroviari e militari, le politiche pubbliche appaiono spesso influenzate da queste attività lobbistiche. L’intero giolittismo – ha scritto Marco Meriggi – si presenta come «un progetto prevalentemente pensato a misura della costellazione economico-sociale caratteristica dell’Italia settentrionale» [8].

Da simili intrecci fra interessi territoriali e scelte governative resta fuori la parte meridionale del Paese. Qui, mancando processi di sviluppo e gruppi di pressione analoghi, quel che sopravvive e anzi si rafforza è il tradizionale sistema di scambi tra elettori, notabili e deputati, ovvero una distribuzione indiscriminata di risorse, assai povera di effetti sulla crescita del territorio. Anche le prime politiche speciali per il Mezzogiorno, dai provvedimenti per la Calabria e la Basilicata alla legge per Napoli, del resto, sono iniziative che partono da agenzie governative, intendendo sopperire dal centro alla mancanza della crescita economica. Una logica opposta a quella che sottende i rapporti tra le élite settentrionali e i governi.

La tendenza è chiara: gli squilibri territoriali producono equilibri politici, e viceversa. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, governi e partiti di governo mostrano notevole intelligenza nell’assecondare e talvolta guidare il «miracolo economico», aprendo il Paese al mercato internazionale, risolvendo con la riforma agraria l’antico contenzioso demaniale, impegnando nei processi di sviluppo l’industria di Stato. Il tutto, malgrado la persistente disomogeneità territoriale della penisola. Dal fenomeno del boom, il Sud è toccato in modo marginale e ne rappresenta anzi gli aspetti più problematici, dovendo assistere all’emigrazione di quasi un milione di persone. E tuttavia toccherà, ancora una volta, alle popolazioni meridionali bilanciare elettoralmente e culturalmente gli effetti indesiderati di una modernizzazione rapida e intensa. Il Sud sarà monarchico nel 1946 e democristiano nelle stagioni del centrismo e del centrosinistra, ridimensionando il ruolo che socialisti e comunisti si sono conquistati nell’Italia della Resistenza. Ancora durante il ventennio 1972-1992, quando i partiti di governo sono ormai in crisi e si avvicina il momento del loro drammatico collasso, la meridionalizzazione dell’elettorato democristiano continuerà a crescere.

Si tratta di un modello ormai sperimentato, nel Paese: l’innovazione strutturale si appoggia alla conservazione politica e accetta una spaccatura territoriale che è connaturata al modello stesso, visto che l’innovazione è attesa in alcune regioni e la conservazione in altre.

La lunga stagione degli investimenti a perdere

Quegli equilibri squilibrati iniziano a vacillare e poi si rompono negli ultimi decenni del Novecento, quando la loro stessa logica provoca il crescente peso del Mezzogiorno nei partiti, nei Parlamenti e nei governi del Paese. La conseguenza è che, in ragione di questo aumentato ruolo politico, al Sud vanno risorse ordinarie e straordinarie sempre più cospicue e sempre meno produttive: dagli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno alle cosiddette «cattedrali nel deserto», dall’incremento degli apparati burocratici alle politiche di sostegno alle famiglie, gli interventi per il Sud sono caratterizzati da un vero e proprio décalage tra impegno di spesa ed efficacia dei risultati conseguiti.

Dagli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno alle cosiddette «cattedrali nel deserto»

Negli anni Ottanta, la grande redistribuzione pubblica appare ormai indissolubilmente intrecciata con la meridionalizzazione delle istituzioni, dei sindacati, delle organizzazioni politiche, che significa la conquista di posti chiave nei ministeri e negli ipertrofici apparati dello Stato e il diffondersi capillare di un sistema di politici-broker, i quali tessono l’usuale rete tra il centro e le periferie del Sud, ma con poteri e opportunità insolitamente vasti.

Ma il fatto che, come ha scritto Salvatore Lupo, «la periferia [possa] esercitare un ruolo egemonico sul centro, anche se si tratta di una periferia “rurale” e arretrata» [9], comporta gravi conseguenze. Ispirate da élite meridionali che, come sempre, devono le proprie fortune pubbliche ai trasferimenti dal centro, le politiche governative tardo-novecentesche rischiano di essere fin troppo condizionate da interessi localistici ed elettorali, poco compatibili con il quadro nazionale e internazionale, di scarsa utilità e anzi dannose per la crescita del Paese, di modesta capacità propulsiva anche sul tessuto locale. Basti citare gli investimenti siderurgici tardo-novecenteschi, attuati quando già il mercato consiglierebbe di non puntare sull’acciaio, o l’insistenza su un’industria fordista che non riesce a creare indotto. Del resto, saranno i deludenti risultati di queste strategie di sviluppo ad aprire la strada a politiche puramente assistenziali.

Emerge il lato oscuro di un sistema di scambio centro-periferie che aveva garantito al Paese stabilità grazie a un investimento politico sui territori meno sviluppati, ma sempre tenendo in conto prevalente gli interessi di quelli più avanzati, e che ora si sta avvitando nel meccanismo opposto: condizionato dalle periferie meridionali, il ceto di governo riduce la qualità delle sue prestazioni e diventa inadeguato rispetto alle spinte e agli interessi delle regioni settentrionali.

Per questa strada, le politiche territoriali rischiano di inceppare lo sviluppo dell’intero Paese e di trascinare in un circolo vizioso la sua élite nazionale. Quelle politiche falliscono infatti l’obiettivo di uno sviluppo autosostenuto nel Mezzogiorno, favorendo anzi la sopravvivenza di sacche di arretratezza al cui interno le risorse sostitutive del mercato non fanno che frenare il mercato stesso. Al tempo stesso, intaccano i conti dello Stato, contribuendo in modo decisivo alla crescita del debito pubblico. All’inizio degli anni Novanta del Novecento, il forte aumento degli impegni finanziari dello Stato, solo in parte coperto da una corrispondente stretta fiscale, porterà il debito al 120% del Pil. Il che espone il Paese al rischio della bancarotta.

Una questione meridionale che, malgrado tutto, aveva attraversato l’intera vicenda nazionale senza irreparabili sussulti sociali e senza vistose conseguenze finanziarie diventa lacerante, divisiva, apparentemente irriducibile al futuro stesso dell’Italia e insostenibile di fronte all’Europa. E ormai, per ironia della sorte, non si chiama più questione meridionale, bensì questione settentrionale.

Conclusioni

È questo l’ultimo anello di una storia – poco consolatoria, ma anche poco manichea – del Mezzogiorno, che spesso non trova riconoscimento nel discorso pubblico e talvolta neppure negli studi accademici. Ma è l’intero paradigma della «questione» che probabilmente andrebbe smontato pezzo per pezzo e ricostruito con una narrativa per certi versi opposta. L’esperienza del Paese, dagli anni del Risorgimento fino alla cosiddetta Seconda Repubblica, suggerisce che il Sud non ha avuto troppo, ma troppo poco Stato, e che tuttora non appaiono maturi i rapporti tra i suoi cittadini e le istituzioni pubbliche. Che il problema spesso agitato di una scarsità di risorse pubbliche è in realtà un problema di risorse pubbliche abbondanti, ma allocate secondo i criteri di una pervasiva intermediazione politica. Che forse vanno rivalutate le virtù del centro, più che le promesse eternamente irrealizzate delle periferie. Che, lungi dall’essere la vittima del mercato settentrionale, il Mezzogiorno ha sofferto e soffre a causa dei particolari impedimenti che soffocano il suo proprio mercato. Che infine, per tutto ciò che in questa storia non ha funzionato, non possono assolversi né il ceto di governo nazionale, né, per altro verso, le classi dirigenti del Sud, ma neppure sono esenti da precise responsabilità le comunità meridionali.

«Finora lo Stato ha assorbito ricchezza nel Sud e l’ha investita nel Nord; da ora in poi bisognerà che lo Stato assorba ricchezza nel Nord e la riversi nel Sud», scriveva nel 1902 Gaetano Salvemini. È quel che è accaduto soprattutto negli ultimi tre-quattro decenni. Oggi, tuttavia, se proprio vogliamo metterla su questo piano, il Sud sembra costretto a rifare i conti (storici e attuali) con il Nord, per capire se abbia crediti in sospeso o, al contrario, debiti da saldare.

Note

[1] L. Ricolfi, Il sacco del Nord, Milano, Guerini e Associati, 2010.

[2] A. Graziani, Mezzogiorno oggi, «Meridiana», 1, 1987.

[3] C. Trigilia, Non c’è Nord senza Sud, Bologna, Il Mulino, 2012.

[4] Per le citazioni di politici, opinionisti e letterati otto-novecenteschi, cfr. P. Macry, Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, Il Mulino, 2012.

[5] R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1854-1861), Roma-Bari, Laterza, 2001.

[6] P. Pezzino, La tradizione rivoluzionaria siciliana e l’invenzione della mafia, «Meridiana», 7-8, 1989-1990.

[7] A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997.

[8] M. Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale dall’Ottocento a oggi, Roma, Donzelli, 1996.

[9] S. Lupo, La decisione politica nella storia d’Italia, «Meridiana», 29, 1997.